FERNANDA PIVANO
C’era una volta un bambino bellissimo. Era biondo. Gli piaceva guardare il mare e sognare, guardare le nuvole e sognare, guardare le bambine e sognare. Viveva con una mamma bellissima, un papà bellissimo, un fratello bellissimo, una nonna bellissima, in una casa bellissima, in una città bellissima. Poi era cominciata la scuola, che non era bellissima, e il bambino preferiva restare nascosto per strada, dove vedeva il mare e le nuvole, lo scirocco che sugli scogli diventava libeccio, i gabbiani eleganti che planavano adagio sulla spuma arricciata. I maestri non erano bellissimi, e il bambino preferiva tornare presto a casa, guardare i libri del papà, ascoltare i racconti della mamma, inventare storie col fratellino. Poi la mamma bellissima gli aveva messo vicino un violino e un maestro, e il bambino non si divertiva a studiarlo, dava al maestro dei pasticcini di panna perché suonasse per lui e invece di suonare leggeva favole di viaggio, finché la mamma se ne era accorta, ohi ohi ohi, lezioni e pasticcini erano finiti, ma non era finito il mare, non erano finite le nuvole, non erano finiti i sogni. Se ne era accorta la bellissima nonna, e aveva portato il bambino in campagna, gli aveva fatto vedere le piante e le foglie, quando escono piccole, bellissime da un ramo, e diventano grandi ma sono sempre bellissime; gli aveva fatto vedere una carota rosata diventare grande e bellissima, un pomodoro diventare rosso e bellissimo, l’erba diventare verde e bellissima. Intanto una bambina bellissima cantava una canzoncina qualunque, e al bambino era sembrata bellissima e la cantava con lei, e poi senza di lei; la cantava e sognava le nuvole e i boschi, sognava i prati e i profumi, i sorrisi e le lacrime: sognava il mondo bellissimo che c’era lì attorno. Poi, sempre bellissimo ma non più bambino, un’estate ha conosciuto in Sardegna prati e boschi in collina, profumi e fiori nell’aria, delfini e rocce nel mare, sempre bellissimi, che gli hanno fatto vedere soltanto sorrisi, perché anche le lacrime erano bellissime, ormai: erano lacrime, ma già dell’amore. Così in Sardegna è rimasto: era diventato un ragazzo e poi un uomo bellissimo, aveva fatto figli bellissimi e sempre bellissimi sogni. Ma i sogni oramai li chiamava canzoni.
Fernanda Pivano, 11-12 marzo 2003
NICOLA PIOVANI
Immaginatevi un ragazzo di ventidue, ventitré anni che vuole fare il musicista, ha appena cominciato a lavorare come arrangiatore, a comporre qualche colonna sonora, e che una mattina risponde al telefono e sente la voce di Fabrizio De André: “Vorrei che lei si occupasse degli arrangiamenti del mio nuovo disco, incontriamoci”.
Fu come vedersi entrare una stella cometa dentro casa. Fra me e Fabrizio c’era qualche anno di differenza, lui era già un grande mito, io un principiante. All’inizio dovevo fare soltanto gli arrangiamenti delle canzoni scritte da lui, ma lavorando cominciai a suggerire qualche variazione armonica, dei piccoli adattamenti. Finché a un certo punto lui mi chiese di scrivere insieme a lui. Se ci ripenso oggi, mi rendo conto di essere stato un incosciente: trovarsi a ventitré anni a scrivere insieme a De André una canzone come La collina, a dirigere un’orchestrona enorme, con De André che cantava. Forse se avessi avuto un pizzico di saggezza in più mi sarei tirato indietro. Invece no, mi buttai, e oggi sono felice di averlo fatto […]
Nicola Piovani intervistato da Vincenzo Mollica
Volammo davvero, Bur, 2007, p. 121
CESARE G. ROMANA
All’epoca, doveva essere il ‘64, Fabrizio non era praticamente nessuno. Era un magro, biondo ragazzo di Genova, che scriveva canzoni e che le ragazze trovavano bellissimo. Con strane virtù: per esempio un cervello a due canali, che gli consentiva, per esempio, di leggere Neruda parlando contemporaneamente d’altro. Un’anomalia singolare anche per lui, che ha passato la vita a raccontare le anomalie di questo mondo. Guardate le sue canzoni. Già allora parlavano di inutili eroi e antieroi dannati, di anomalie appunto della società e dell’etica, descritte però come se l’unica vera anomalia fossero in realtà le cosiddette persone normali, o perbene. Nel ‘64 lavorava in una scuola di Genova, e lì lo conobbi: ingabbiato – o protetto – da un ufficio grande come una casa delle bambole. Aveva appena scritto La canzone di Marinella, e me la spiegò: “Parla d’una ragazza di vita, annegata da un delinquente”. Poi me la lesse: mi aspettavo una pagina di cronaca nera e trovai una favola, partita tra i fiordalisi e finita tra le stelle. Dissi: “Credo che lei sia un genio. Ma di dischi ne venderà pochi”. Azzeccai solo la prima parte della frase, lui rispose: “Lo so”, e alludeva alla seconda. Così era Fabrizio da giovane.
Non dissimile da quello che ci ha accompagnati poi fino all’11 gennaio 1999, e tuttora. D’essere un genio ha continuato a non crederlo, né ha mai smesso di parlare di noi con la verità della cronaca, anche nera, e la poesia delle favole, magari di quelle gotiche. Di sollevare la vernice delle cose per smascherare il bello e il brutto, la rabbia e l’utopia, la viltà e la nobiltà che sono nelle cose, cioè nella vita.
Cesare G. Romana, 27 marzo 2002